Il CdS torna sul tema delle tettoie: la differenza sulla necessità o meno di richiesta del PdC è data dalla consistenza del manufatto
Rieccoci ad occuparci di un classico intramontabile degli abusi in edilizia: la tettoia! Con una nuova sentenza sul caso, la n. 10897-2022, il Consiglio di Stato fa un utile ripasso e riepilogo, con qualche nuovo chiarimento, sulle circostanze che inquadrano la legittimità o la illegittimità di questo manufatto ancora protagonista di tante discussioni delle aule dei tribunali.
Tettoia incriminata: queste le caratteristiche!
Il Comune ne chiedeva la demolizione alla proprietaria che prontamente inoltrava istanza di sanatoria, per cui veniva sospeso il provvedimento demolitivo.
Successivamente, la disputa approdava prima presso il Tar e poi in appello presso il CdS.
Delineate quindi l’oggetto e la circostanza del contendere, passiamo alla difesa. La proprietaria ricorrente:
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I giudici di Palazzo Spada, riprendendo il giudizio del Tar, osservano che la mera natura pertinenziale della tettoia in questione supposta dalla ricorrente non può ritenersi tale, date le dimensioni del manufatto che concorrono a mutare dal punto di vista esteriore lo stato dei luoghi, a determinare una modifica dell’immobile preesistente e, quindi, una trasformazione edilizia e urbanistica del territorio in area assoggettata a vincolo paesaggistico.
A tal proposito, secondo la consolidata giurisprudenza del CdS:
La realizzazione di una tettoia in aderenza alla parete verticale di un manufatto preesistente è, infatti, idonea a costituire un collegamento qualificato con il relativo immobile, anche se non imbullonata alla parete verticale dell’edificio cui accede, ma al suolo. Essa modifica la sagoma e costituisce un ampliamento, con conseguente creazione di nuova volumetria implicando la richiesta di un adeguato titolo autorizzatorio.
I giudici respingono l’assunto secondo cui la presentazione da parte del destinatario di un ordine di demolizione di una domanda di condono o sanatoria produrrebbe la definitiva inefficacia dell’originario ordine di demolizione.
Per giurisprudenza pacifica, la presentazione di un’istanza di sanatoria non comporta l’inefficacia del provvedimento sanzionatorio pregresso, non essendoci un’automatica necessità per l’amministrazione di adottare un nuovo provvedimento di demolizione; nel caso in cui venga presentata una domanda di accertamento di conformità in relazione alle medesime opere (da verificare nel caso di specie da parte degli organi comunali), l’efficacia dell’ordine di demolizione subisce un arresto, ma tale inefficacia opera in termini di mera sospensione.
Ne consegue che, rigettata la sanatoria, la demolizione, temporaneamente inefficace in pendenza del procedimento di sanatoria, riprende vigore anche in caso di silenzio-diniego.
L’art. 36 del testo unico sull’edilizia ha previsto che “sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata“.
In ultimo, il CdS chiarisce che secondo consolidata giurisprudenza in materia, l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della PA, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quale il diniego di condono o della sanatoria, costituiscono un atto vincolato per la cui adozione non è necessario l’invio di comunicazione di avvio di procedimento, non essendovi spazio per i momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
Per questi motivi, il ricorso non è accolto.
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