Gazebo e pergotende ad uso commerciale: quando occorre il permesso di costruire?
Tar Lazio: gazebo e pergotende ad uso commerciale con funzione di vetrine non sono opere precarie e necessitano del permesso di costruire
Che le caratteristiche di amovibilità di un manufatto passino in second’ordine rispetto al tipo di utilizzo è ormai orientamento giurisprudenziale sempre più consolidato ai fini dell’inquadramento della medesima opera rispetto all’attività di edilizia libera o la richiesta del titolo edilizio più adatto. Ti ricordo che in merito, a scanso di errori costosi in termini economici e penali anche a distanza di anni, puoi disporre di un valido strumento di lavoro: il software per la gestione dei titoli abilitativi in edilizia che attraverso una procedura guidata ti aiuta ad individuare i titoli abilitativi in funzione dell’intervento.
Diamo spazio, quindi, alla sentenza n. 11418/2023 attraverso la quale il Tar Lazio torna a ribadire che l’inappropriato impiego di manufatti in edilizia libera normalmente utilizzati per l’arredo ed il decoro di spazi aperti, potrebbe originare un abuso edilizio.
Gazebo e pergotende ad uso commerciale: edilizia libera o PdC ?
Un’attività commerciale di tende e arredi da esterno riceveva un’ingiunzione a rimuovere o demolire interventi di ristrutturazione edilizia abusivamente realizzati.
L’ingiunzione era riferita all’installazione esterna al negozio di 5 gazebo, variabili da 4 x 4 m a 5 x 5 m, di varie fattezze e altezze, dimostrativi dei prodotti realizzati dalla propria attività commerciale con finalità di vetrina espositiva su area di proprietà esterna del negozio.
Secondo la società non sarebbe stato realizzato alcun intervento di ristrutturazione edilizia (art. 33 del dpr 380/2001), trattandosi di manufatti semplicemente appoggiati sul terreno in via temporanea, come vetrina espositiva esterna al negozio, facilmente rimovibili e quindi non necessitanti di titolo edilizio, richiamando al riguardo la giurisprudenza formatasi in materia di gazebo.
Seguiva il ricorso al Tar.
I gazebo utilizzati per esporre la merce costituiscono prolungamento esterno dell’attività commerciale
A parere dei giudici, in questo caso non valgono i principi giurisprudenziali con riferimento a gazebo e pergotende installate su immobili residenziali, potendo solo per questi ultimi riconoscersi la finalità di arredo di spazi esterni volti alla migliore fruizione degli stessi:
Nella fattispecie in esame viene in rilievo l’installazione di gazebo che, con finalità espositiva della merce, comporta un’estensione della superficie commerciale, e non risponde in alcun modo a finalità di mero arredo di spazi esterni.
Tenuto conto, inoltre, del numero di gazebo installati e delle relative dimensioni, implicanti un significativo impatto sul territorio, con visibile alterazione dello stesso, le opere descritte sono realmente qualificabili come di ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 3 comma 1, lett. d, dpr 380/2001, subordinati quindi, ai sensi dell’art. 10 del citato TUE, al regime del permesso di costruire o comunque della SCIA alternativa al permesso a costruire, la cui mancanza legittima l’adozione dell’ordine di demolizione.
Il concetto di precarietà
Il Tar spiega che la qualificazione delle opere come provvisorie non è plausibile, stante la loro permanente funzionalizzazione alle esigenze commerciali del negozio, in modo da dotarlo di vetrina esterna allestita con prodotti di vendita, per soddisfare, quindi, esigenze permanenti mediante collocazione di opere che, sebbene non infisse al suolo e quindi dotate del carattere di precarietà strutturale, non sono volte a soddisfare esigenze temporanee.
Ai fini dell’identificazione del regime abilitativo edilizio, per la qualificazione di un’opera come precaria, occorre riferirsi non tanto e non solo alla consistenza strutturale e all’ancoraggio al suolo dei materiali di cui si compone, ma valutare i termini funzionali, accertando se si tratta di un’opera destinata a soddisfare bisogni duraturi, ancorché realizzata in modo da poter essere agevolmente rimossa. Le caratteristiche costruttive del manufatto, evidenziate da parte ricorrente, sono quindi inidonee a comprovarne il carattere precario, ma destinate ad uso duraturo nel tempo, avente notevoli dimensioni ed impatto.
La natura precaria di un manufatto deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale dell’opera ad un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione:
- non risultando, peraltro, sufficiente la sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo o la temporaneità della destinazione soggettivamente data all’opera dal costruttore,
- non dovendo l’opera precaria comportare una trasformazione irreversibile del territorio.
Il concetto di precarietà va distinto, quindi, da quello di amovibilità, non essendo quest’ultimo coessenziale per l’individuazione della natura precaria dell’opera realizzata e ciò coerentemente con l’art. 3, lettera d, punto e.5 del TUE, che disciplina le strutture leggere, escludendo dalla nozione di ristrutturazione edilizia solo quelle opere che siano destinate a soddisfare esigenze meramente temporanee.
Il ricorso non è, quindi, accolto.
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Per maggiore approfondimento, leggi anche questi articoli di BibLus-net:
- “Nozione di opera precaria: conta l’uso non stabile del manufatto“
- “Un’opera stagionale può dirsi automaticamente precaria?“
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